C'è un Flaubert anche in Ungheria: racconta il cuore semplice di Anna
di Giorgio Pressburger
La casa editrice milanese Anfora ripropone Dezső Kosztolányi, grande mitteleuropeo
Le grandi letterature delle lingue egemoni, nei nostri anni sono come convitati di pietra: hanno bussato alle nostre porte per invitarci a una cena che preannunciava la nostra dannazione. Noi li abbiamo ascoltati sgomenti, non abbiamo detto nulla. Stiamo lì ad aspettare la fine di Don Giovanni, lo spalancarsi dell'inferno. Altra grande letteratura non viene ancora a visitarci, con annunci più favorevoli. Ma dalle lingue non egemoni arrivano nuovi messaggeri.
In Europa fiorisce una letteratura che chiede di essere ascoltata e non come rarità, come parola esotica, folclore: ma come inizio di un nuovo mondo. Tra queste nuove presenze c'è sicuramente la parte orientale del nostro continente: l'Est, o quella che una volta si chiamava così. Tra gli scrittori più significativi di oggi almeno cinque sei vengono da quelle parti. Gli editori italiani se ne sono accorti, e tentano di prenderne atto. Oltre agli scrittori oggi viventi, un narratore ungherese della prima metà del Novecento è tra gli autori che in questi anni vengono proposti e riproposti: si chiama Dezső Kosztolányi (1885-1936).
In questi mesi una piccola casa editrice milanese, Anfora, ha pubblicato un suo libro dal titolo Anna Édes (traduzione di Andrea Rényi e Mónika Szilágyi, pp. 220, euro 15). Quel libro parla di un mondo che è tramontato da quasi cent'anni: di quello della fine della Prima guerra mondiale. Anche noi, in Italia, di quel mondo abbiamo parlato per un anno intero, quello appena trascorso, giacché il 2014 aveva segnato il centenario dello scoppio dell'orribile Prima guerra. L'Europa, la nostra tormentata Europa, quella che noi viviamo oggi, geograficamente si è conformata proprio allora, le spartizioni, gli smembramenti, le divisioni le unioni sono cominciate in quegli anni. E' proprio con l'apocalittico volo di Béla Kun, in fuga da Budapest verso l'Unione Sovietica si apre il romanzo di cui stiamo per parlare. Siamo nella Budapest del 1919, ancora dilaniata dalla lotta tra governo comunista e l'improvviso installarsi del regime dell'ammiraglio Horthy che diventerà Reggente.
La protagonista del libro è Anna Édes, una contadina di vent'anni che trova lavoro come domestica presso una famiglia borghese di Budapest. La storia di questa ragazza dolce (édes vuol dire dolce), umile, mite, diventerà simbolo dell'Ungheria di allora, ancora mezza rurale, mezza borghese, mezza feudale. Il libro di Kosztolányi è davvero enigmatico, riguardo a questo simbolo. Ma qui sta anche la sua modernità, e diciamo subito che questo eccentrico scrittore è davvero una delle grandi figure intellettuali di quegli anni: figura di portata europea, e anche mondiale.
Alla stregua di Flaubert e del suo Un cuore semplice, racconto tra i più esemplari di tutta la letteratura del nostro continente, lo scrittore ungherese dà una descrizione dell'interiorità di questo "cuore semplice" della sua nazione, elevandone la portata e il significato a vero grande simbolo. C'è una notevole differenza, però, rispetto a Flaubert: la dolce Anna, verso la fine del romanzo, diventa assassina feroce dei suoi padroni. Senza nessun precedente, senza alcuna preparazione narrativa (sì, viene sedotta dal nipote degli "illustrissimi" e ne è anche secondo gli schemi, abbandonata), ma non pare essere questa la causa del suo delitto. Si tratta di sentimenti secolari, primordiali, che improvvisamente si scatenano. Qualcosa come quelli che sono descritti da Tolstoj nel dramma La potenza delle tenebre, Ma c'è ancora una nuova sorpresa: al processo la ragazza viene difesa da uno dei testimoni, un dottore diabetico, che si regge appena in piedi. E' questo dottore a perorare la causa di Anna. Ed è davvero un colpo narrativo eccezionale quando l'autore stesso incita il suo personaggio a parlare. "Cosa fai disgraziato, taci? Su, parla, sforzati!". C'è una lunga scena tra l'autore e il dottore. Così, dopo un tormentoso dibattimento, Anna non viene condannata alla forca, ma a quindici anni di carcere.
Nell'ultimo capitolo del libro due personaggi laterali, non protagonisti, passeggiando, vedono un signore allampanato su una veranda: è lo scrittore stesso, Kosztolányi. I due ne dicono di tutti i colori, lo tacciono di essere un voltagabbana, chi lo reputa comunista, chi un fautore della dittatura di destra, chi un cristiano di facciata, chi ebreo. Ma lui è semplicemente un uomo che rivendica la sua libertà mentale, niente altro. In un'Europa che prepara la Seconda guerra mondiale, come del resto nella nostra, di oggi, non è da poco.
Lo so che un articolo non basta per lanciare un libro che non sia un puro oggetto di intrattenimento. Ma io mi permetto di perorare la causa di romanzi come questo, di autori come questo. Di letterature come quella ungherese che tutt'oggi sono capaci di produrre opere esemplari e non restano solo convitati di pietra.