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Spensi le luci e lasciai l’Ungheria Sono tornato, e...

Aggiornamento: 5 dic 2023

Riproponiamo una lettera racconto di Imre Oravecz apparsa su La Lettura del Corriere della Sera del 1 dicembre 2019, in cui il nostro poeta narra una fuga nel 1988 e parla dell’«umore pessimo» degli anni novanta, il periodo in cui l'ha scritta.


di Imre Oravecz


A dire la verità ultimamente non ti ho più viziato con le mie lettere. L’ultima te l’ho scritta tre anni fa. E tre anni sono tanti nella vita di uomini di mezza età. Da allora tante cose sono successe al mondo, soprattutto da queste parti, in Europa Orientale. È avvenuto quello che avevamo sempre aspettato e in cui quasi non speravamo più. Anche noi ungheresi ci siamo liberati dal giogo della tirannia e abbiamo smesso di essere una colonia sovietica. In principio ne eravamo molto contenti, ma presto l’abbiamo tolto dall’ordine del giorno e adesso il nostro umore è pessimo.

Piuttosto vorrei raccontarti perché il mio impegno epistolare si fosse placato. Non ti ho dato segno di vita per tre anni, perché la storia, realizzando i nostri sogni più belli, ha rovinato il mio piano. Mi ha messo in una posizione in cui un occhio mi piangeva e l’altro rideva, e questa dualità mi faceva soffrire.

Può sembrare strano, ma questa è la verità. Era successo che all’alba della libertà, non ero sicuro se il sole stesse sorgendo o se stesse calando per sempre. E a fine 1988, ho preso me e M. e, con la prospettiva di stabilirmi da voi, ho tagliato la corda da questa patria, e soltanto un anno dopo, a fine 1989, quando le cose erano andate come erano andate, ho cambiato idea e ho fatto marcia indietro.

A lungo, non avevo coinvolto nessuno nel mio piano. Nemmeno a te avevo svelato nulla quando a fine 1987 eri stato in Ungheria a trovarmi. Tacevo e attendevo, pronto a saltare. Avevo considerato come un segno positivo che le autorità avessero annullato il permesso di viaggio e finalmente il passaporto ungherese fosse diventato passaporto. Ora mancava solo lo sfondo finanziario. Ero già statodissidente o mezzo dissidente, se capisci questa parola che cadrà presto nel dimenticatoio, sapevo cosa significasse essere senza soldi all’estero. Non potevo esporre M. agli stenti.

E allora, nella primavera del 1988, avevo ricevuto una borsa di studio per scrittori da quella che allora si chiamava Berlino Ovest. Ora bisognava aspettare solo la fine dell’anno, perché l’invito era per l’anno successivo. Aspettavo e intanto mipreparavo. A poco a poco, senza dare nell’occhio, ho segretamente liquidato tutto. Fu un addio lungo, un’occupazione faticosa, carica di tempeste emotive. Non era la prima volta che lo feci, eppure spesso mi s’appannavano gli occhi. Tuttavia, dovevo stare attento a causa della cospirazione. Faticosamente, ma arrivò finalmente il giorno della partenza, o meglio, la sera prima del giorno della partenza. Apparentemente tutto stava andando secondo ogni consuetudine:cenare, guardare un video, fare il bagno. Quando era arrivato il momento, ho messo al letto M.

Si addormentò abbastanza rapidamente e mi misi al lavoro. Avevo già accumulato la maggior parte delle cose che avevo scelto nello studio. Dovevo solo raccogliere il resto, portare su le valigie e le scatole dal garage e portarle giù e mettere tutto in macchina. Dovevo sbrigarmi, non avevo molto tempo per prendere quello che potevo portare via, e lasciare il resto, la mia vita, che non potevo. Nel frattempo dovevo essere attento anche che i vicini non notassero il grande trambusto notturno. Non avevo paura solo delle autorità ma anche della madre di M., che faceva una campagna contro di me. Avevo dovuto fuorviare anche lei. (L’avrebbe usato contro di me nella causa di affidamento riaperta in seguito.)

Lavorai tutta la notte e finii per le 4 del mattino. Gli occhi mi bruciavano, la testa mi girava per la stanchezza, ma il sonno che avevo pianificato era fuori questione. Mi sedetti. Per un momento mi venne in mente che non sarei riuscito, che mi affannavo inutilmente, mi avrebbero acciuffato al confine o sarebbe capitato qualcos’altro. Ma scacciai be capitato qualcos’altro. Ma scacciai quell’incubo. Mi alzai e mi preparai un caffè forte (cosa che di solito non faccio perché bevo tè) e lo bevvi. Svegliai M. Credeva che saremmo andati in Austria a sciare. Per quando si era vestito, mi ero ripreso un po’.Controllai ancora una volta i documenti di viaggio e contai i soldi. Era tutto a posto. Poi spensi il riscaldamento dappertutto, spensi l’elettricità, staccai la spina del frigorifero, spensi la fiammetta dello scaldabagno e chiusi l’appartamento. (Ho ancora il rumore del clic della serratura nell’orecchie, era diverso dal solito.)

Scendemmo in garage. Uscii con la macchina, ci sedemmo dentro e partimmo nel buio. Se è vero che ogni espatrio e ritorno equivale al morire, allora io ho mancato da questa valle di lacrime cinque volte. Non sei volte, perché l’ultimo ritorno è una nuova categoria per la quale non esiste ancora una parola specifica, e andrà bene se non ne esisterà mai. L’Ungheria a fine 1989 non era più il Paese che avevo lasciato a fine 1988. Almeno non sotto tutti gli aspetti. Brutte sensazioni ne ho avute e ne ho ancora. Ma ormai non mi libererò più di quelle. A voltei dubbi mi attanagliano, mi chiedo se tuttavia non sarebbe stato meglio rimanere all’estero. Il tuo Paese, come Paese di destinazione, è stato eliminato, perché non avrei più ottenuto l’asilo politico, ma come rifugiato economico avrei ancora potuto stabilirmi in Canada o in Australia. Dopotutto, anche se i russi sono usciti tutti fino all’ultimo, potrebbero tornare in qualsiasi momento e potrebbero fare un fischio ai loro mastini locali. E poi chissà quando ci sarà qua una democrazia come vorremmo noi?


(Traduzione di Mónika Szilágyi)









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