La situazione - che spesso si complicava per colpa di mio padre, incapace di dire no a qualsiasi richiesta - questa volta apparve più grave del solito. La crisi economica familiare, causata dai prestiti mai restituiti, in qualche modo era sempre stata colmata da mia madre. Capitava che per colpa di persone venute meno alla propria parola a finire nei guai fossimo noi, ma non era una novità nell’Ungheria appena reduce dalla sconfitta in guerra. Mia madre arrotondava anche lo stipendio, ridotto al minimo di mio padre, con dei lavori saltuari. Lo Stato non era in grado di procurare prodotti che avrebbe dovuto importare pagandoli in valuta straniera: non c’erano agrumi, né le specialità cui la vecchia città era abituata: non si vendevano cannella, datteri, cedri, arance o cioccolato. Nelle vetrine delle botteghe di giocattoli, fonte di felicità per gli occhi dei bambini, c’erano solo alcuni tristissimi cavallucci di legno o bambole da quattro soldi in porcellana bianca come la calce e con i capelli semplicemente dipinti con un pennello: tanto brutte da sembrare cadaveriche. Mia madre, che nel convento aveva frequentato anche la scuola di sartoria, girava per quei negozi, domandando se le compravano dei giocattoli fatti non certo di materiale pregiato, ma soltanto di tessuto di scarto, rimasugli di pelliccia, ma indubbiamente più allegri: orsacchiotti e cani fatti con i resti dei suoi vestiti usati. Vendeva anche dei cavallini di stoffa fatti con delle tovaglie da cucina. In breve tempo ottenne un successo senza pari, la sua merce andò a ruba, fu ordinata nuovamente, i bambini della città stringevano al petto gli insoliti destrieri di mia madre, sul cui dorso e sulla cui groppa facevano bella mostra di sé delle prugne e delle fragole, sul loro muso, come se avessero il morbillo, dei ribes.
Mia madre era sempre riuscita a superare gli inconvenienti della vita, ma quella volta fu diverso. La pace aveva ridisegnato la carta geografica del paese, per carenza di denaro non era più possibile rivolgersi alla mia prozia, Gizella, proprietaria di moltissime vigne: per ogni centesimo teneva dei discorsi dottrinali, ma ci concedeva sempre un prestito. Il nostro debito con lei, allora, era cresciuto a livelli altissimi, ma non avevamo più nulla per coprirlo se non il sacco di cenci di mia madre. Il podere di Zia Gizella - un vigneto che produceva solo frutti di qualità superiore di tutta la zona - era finito all’altro lato del confine. Gizella, vedova, aveva perso tutto ciò che le avrebbe assicurato il sostentamento: da un giorno all’altro era cessata la regolare consegna della raccolta dopo la vendemmia. Il mezzadro, l’affittuario era sparito, in autunno non erano più arrivati i carri con i frutti raccolti, con le botti di vino o con i proventi del raccolto venduto: non era arrivato niente, non avevano neppure comunicato a Gizella il nome del nuovo proprietario del podere che era venuto a trovarsi oltre il confine: il suo podere era stato portato via dal trattato di Trianon. Paradossalmente soltanto l’ufficio tributario locale non aveva dimenticato l’esistenza del podere. Gizella piangeva e rideva allo stesso tempo quando fu chiamata a regolare le sue pendenze fiscali. Per quale ragione avrebbe dovuto pagare? Dove era quel podere, e se non produceva nessuna rendita, con quale denaro avrebbe dovuto regolare il suo debito?
Eppure esigevano da Gizella il completo pagamento del debito fiscale arretrato. In caso d’insolvenza, le comunicarono, avrebbe subito lo sfratto, cui sarebbe seguita la messa all’asta dell’arredamento, che non era di poco valore.
I miei occhi di bambina già vedevano come la casa di Zia Gizella sarebbe stata venduta all’asta. Mia madre cercava di non preoccuparsi: esistevano dei sentimenti che lei non conosceva, anche piangere piuttosto lo faceva per gioia, ma per eventi tragici quasi mai. Era incapace anche di avere paura, parava le sventure o gli attacchi subdoli della vita con la sicurezza di un campione di scherma. Gli oggetti di valore che avevamo, a causa dei debiti di mio padre, valevano ormai ben poco, dei gioielli erano rimasti solo le fedi. Quel giorno il clima era depresso, cupo, nessuno aveva delle proposte, mia madre fissava il fumo della sua sigaretta; tra i miei due genitori era lei il vero fumatore. Io seguivo la mia routine quotidiana: era arrivato il momento degli esercizi di pianoforte, malgrado fossi preoccupata per la condizione precaria della nostra vita. Cominciai a fare gli arpeggi. Purtroppo, appena ero riuscita a stare sullo sgabello del pianoforte, mia madre mi aveva iscritto alla scuola di musica, che frequentavo con un feroce senso di repulsione raro per una bambina. Non mi piaceva la musica, gli esercizi erano una tortura. Martellavo sui tasti del paziente Bechstein, senza badare se schiacciavo il tasto sbagliato, andava bene lo stesso, bim-bum-bam, tanto in seguito ai colpi ne uscivano fuori solo dei rimbombi, come poteva esserci musica, era solo un’umiliazione, una perdita di tempo, quanto lo odiavo! Dietro il mio ragionamento si nascondeva un’altra verità, che avrei compreso solo in età più matura. Io non odiavo la musica, non la maestra, non gli spartiti: io odiavo il pianoforte, perché era il mio nemico. Che cosa poteva sapere una bambina delle aspirazioni abortite, delle ambizioni insoddisfatte della madre, di una carriera artistica spezzata, umiliata?
L’arpeggio risuonava. All’angolo, dietro il fumo, i volti dei due adulti che sembravano come seduti in un museo tra gli oggetti che raccontavano la loro vita e i loro segreti. Il bel viso di mia madre si rilassava, come fosse in un sonno vigile a occhi chiusi, solo quando si metteva a suonare al pianoforte, e la magnifica musica, la grande musica, con i sogni e le sconfitte o le speranze degli autori veri, volava sotto le sue dita, punzecchiate per la cucitura dei pupazzi dalle facce a pois, le dita di una grande artista che non era mai potuta diventare tale. Il pianoforte la portava da qualche parte lontano, dove io non vivevo, dove nemmeno mio padre viveva. Portava mia madre in una sala da concerto dove il compositore dirigeva, e in quei momenti lei non era né una donna né una moglie, solo il suono stesso; il pianoforte come una barca, la portava via, su delle onde: su quali onde, su quale mare, verso quali parti, non lo sapevo, li conosceva soltanto lei. A volte mio padre strimpellava per proprio diletto dei salmi e delle melodie da operetta, io martellavo disperatamente, ma mia madre faceva musica: quale importante messaggio le fosse stato affidato, venni a saperlo solo io, nell’ultimo periodo della mia vita, quando tra i personaggi di questa storia non era più in vita nessuno.
Dovetti esercitarmi un’ora e mezzo, poi quando ebbi finito, giunse il tempo di andare a lavarmi le mani e apparecchiare per la cena. Una cena silenziosa, ricotta di pecora, un paio di pomodori, sul pane non c’era nemmeno burro, tra l’altro neppure mi piaceva il burro. Guardavo i visi uno dopo l’altro, mentre cenavamo e io sorseggiavo la tazza di latte per me obbligatoria, sul volto di mia madre c’era una tristezza ineluttabile, sul volto di mio padre una grave pena. Non osai parlare, anche il gatto sentiva il peso della serata perché non si avvicinava e non mi picchiettava sulle gambe per indurmi alla pietà e dargli qualcosa. Quel giorno mi mandarono a letto presto, ma non riuscivo ad addormentarmi: almeno non avessi visto con quel modo curioso con il quale percepivo tutto quel che immaginavo, sin da quando ebbi uso della ragione e anche senza vederlo effettivamente Zia Gizella senzatetto a cui l’ufficio tributario dava la caccia, al punto che era stata indetta un’asta giudiziaria, per di più a causa di qualcosa che nemmeno esisteva.
Fuori nel salone, gli adulti tacevano, neanche il grammofono, che di solito accendevano per farmi piacere, suonava; chiedevo o l’Humoresques di Dvorák o la Canzone di Solveig. Chi poteva capire i presagi di una bambina che con serenità disciplinata si esercitava a provare la solitudine e la futilità dell’attesa del ritorno?
- Metto in vendita il pianoforte - sentii la voce di mia madre. Lo disse articolando chiaramente, senza alcun sentimento, alcuna commozione. - Quello sarà sufficiente per appianare i debiti.
Mi sollevai sui gomiti, il cuore mi tamburellava nelle orecchie. Che amarezza, che delizia, la vita quel giorno mi aveva gettato nell’acqua salata, ma mia madre mi salvò. Che portino via quel maledetto strumento, magari farà bene anche a lei, dato che serve a sognare di essere in un luogo estraneo che non è mio, non è di mio padre, che è solo suo, e chissà quali esseri lo abitano?
Che se ne vada lo strumento sciagurato che aveva incantato mia madre, forse allora lei diventerà come se non avesse avuto una vita prima di noi e l’incantesimo si spezzerà. Avvertii un mugolio, pensavo fosse il gatto che dormiva dentro casa. Per mia fortuna, capisco solo adesso che era mio padre a scoppiare in pianto. Non protestò, non poteva permetterselo.
Fu un solo suono strano, poi di nuovo il silenzio e infine una frase secca:
- Ma non le resta niente.
- Oh, ma sì. Ma sì.
Allora era tutto risolto! Dormii felcemente tutta la notte, finite le lezioni di musica, niente più tortura, eravamo diventati liberi. Il pianoforte fu comprato in dieci giorni dal negozio di musica del luogo, ricavammo qualcosa di più rispetto al debito di mio padre, mia madre mise il denaro nel cassetto di cui era lei a tenere la chiave. Era silenziosa mentre levavano le porte e portavano via la carcassa del piano, io invece perfidamente lo seguivo con gli occhi e dissi tra me e me: quella sera, quella notte era stata mia madre stessa a dire che non le sarebbe mancato. Quel giorno neanche mio padre fu da meno: mostrava con zelo di sapersi rendere utile. Cambiò la disposizione dei mobili, perché l’assenza del pianoforte era molto vistosa, il locale relativamente grande era diventato sproporzionato e in qualche modo senza senso, come tutta la vita incomprensibile. Mia madre stavolta non aiutava, si mise alla macchina da cucire e cuciva i giocattoli. Il nostro grammofono sino ad allora era rimasto sul pianoforte, mio padre portò giù dalla soffitta un tavolo rotondo per cui prima non c’era posto, ci mise sopra il grammofono, con su un disco. Mia madre smise all’istante di cucire.
- Non ci pensare nemmeno. Odio la musica meccanica.
- Non me l’hai mai detto.
- Perché avrei dovuto dirlo, quando a te piace e hai fatto abituare anche la bimba. Lasciami lavorare! Vai alla scuola di musica, comunica che la bimba abbandona lo studio e prendi un po’ di aria fresca! Non mi guardare così spaventato, non c’è niente di male, solo non ho voglia di niente che faccia rumore. Vai!
Mio padre se ne andò, io facevo i compiti e mi sentivo protetta da una sicurezza felice e benedetta, come sempre quando mia madre era seduta alla macchina da cucire e sotto le sue mani nascevano i vari animali. Ormai sarebbe andato tutto bene, sarebbero finiti gli sguardi strani e lei non avrebbe più avuto dei segreti.
La macchina da cucire si fermò, mia madre andò alla sua libreria, in quel mobile porta spartiti teneva le sue numerosissime partiture, in tantissimi sottili scomparti separati. Tirò fuori qualcosa di Liszt, la spiegò sul tavolo tra i pezzi di corpo dei pupazzi animali a pois, e cominciò a guardarla. Leggeva la musica come altri erano soliti leggere un romanzo, le dita nemmeno si muovevano, poi all’improvviso con una mossa rovesciò dal piano i pezzi tagliati dei giocattoli e cominciò a suonare il pianoforte sul piano del tavolo. Guardava appena lo spartito. Compresi qualcosa che a quell’età non avrei dovuto ancora capire. Urlavo - non sapevo mai piangere con decen- za, solo in modo sguaiato -, urlavo, perché nessuno aveva vinto, solo io, ma a che cosa mi serviva la vittoria? Non era stato lo sciagurato pianoforte la barca su cui a volte lei se ne era andata, ma quello che stava facendo ora, quando davanti ai miei occhi se ne stava andando lontano e noi due, io e mio padre, restavamo.
Mia madre continuò a suonare: fu l’unico giorno della mia vita nel quale non lenì il mio dolore, non mise da parte il suo dolore e non mi aiutò, suonava soltanto, al destino, al fato, alla sconfitta, a tutto quello che si presentava come un ostacolo e in quel momento si compì anche il suo trionfo artistico. Quel poco spettava pure a lei, un piano del tavolo e il miracolo delle dita.
Lei non poteva sapere che quella scena mi sarebbe rimasta impressa, ma che non ne avrei mai parlato a nessuno, nemmeno a mio padre, anzi proprio a lui mai; quella sarebbe stata la visione con cui avrei oltrepassato la mia ombra tremante, e, pronunciando il nome di mia madre contro ogni cattiva magia, avrei fatto salpare la mia barca nel mare ostile della vita.
Magda Szabó
Traduzione di Mónika Szilágyi, testo e foto per gentile concessione dell'erede di Magda Szabó. Vietata ogni riproduzione.
(Il racconto - in versione adattata, come qui riportata - è stato pubblicato il 20 settembre 2015 su Il Giornale con un'introduzione di Gian Paolo Serino.)